
Una città monocolore, solo campi,
colline in fondo agli occhi:
il diverso era così diverso che non si conosceva
il modo di definirlo.
Poi gli si diede un nome senza averglielo chiesto prima.
Il diverso si notava senza volerlo ma volendolo,
a dire degli altri, meritando, quindi, il dito puntato contro
o dei metri attorno, lasciati vuoti.
Come quando la terra nacque: era tutto così verde
che gli animali vedevano solo per contrasto.
Poi venne un’altra epoca
-questo io chiamo progresso-
e diversi tipi di foglie si incrociarono,
non ci fu più disgiunzione -dei colori
fu la rivoluzione.
La stessa rivoluzione che vive la città
quando io mi avvicino a te che arrivi qui
conoscendo così bene quello che hai lasciato,
(che è il motivo per cui lo hai lasciato),
e così poco quello che troverai
(e se lo troverai)
e voglio sapere da dove vieni,
e voglio sapere che cosa vedi
e la collina davanti a noi
diventa il cappello che io vedo
e la gobba di cammello che tu vedi
e si colora.